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Testimonianza e Neurotecnologie di Lie Detection

La testimonianza e le neurotecnologie di Lie Detection

La testimonianza ha da sempre costituito il principale mezzo di prova nei procedimenti penali.

Introduzione

I testimoni, infatti, possono essere in grado di richiamare dettagli come tempi e luoghi del crimine, così come identificare le persone coinvolte nei fatti-reato. Per questi motivi, giurie e giudici fanno spesso affidamento sulle dichiarazioni dei testimoni per emettere i loro verdetti. Tuttavia, la fede che il sistema legale ripone nella testimonianza è stata a volte messa in crisi da studi psicologici e di neuropsicologia circa l’incapacità dei giudici e dei giurati di identificare la menzogna, e quindi di distinguere tra chi dice il vero e chi invece mente.

La fallibilità della testimonianza – dovuta sia all’elevata probabilità di inganno, così come all’incapacità da parte del terzo osservatore di riconoscerlo – è oggetto di intensi dibattiti che coinvolgono teorici di diritto penale da una parte e scienziati dall’altra, nel tentativo di identificare metodologie affidabili da utilizzare per rilevare l’inganno che eventualmente si cela nelle dichiarazioni dei testimoni.

Partendo dall’analisi comportamentale per arrivare al famoso (e controverso) poligrafo, la questione dell’identificazione dell’inganno è stata di recente affrontata dalle neuroscienze, e in particolare dalle tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna basate sullo studio del funzionamento del cervello.

Nonostante il suo grande potenziale innovativo, l’uso di tecniche neuroscientifiche per rilevare l’inganno pone serie sfide alle dottrine penalistiche e procedurali. Oltre a sollevare polemiche sul suo valore probatorio da entrambi i punti di vista scientifici e legali, l’uso della rilevazione della menzogna basata sulle neuroscienze in ambito legale pone seri dubbi sulla sua conformità con i diritti dei testimoni all’interno del processo penale.

A differenza di altri tipi di prove scientifiche – che sono più focalizzate sulla dimostrazione di dati oggettivi – la particolarità delle tecniche di rilevamento della menzogna basate sullo studio del funzionamento del cervello sta nell’esplorazione e nell’analisi della mente dei testimoni, quindi in un approccio che potenzialmente può violare, legalmente, la loro “privacy interiore” al fine di richiamare e riportare alla luce fatti e situazioni in base alle loro memorie e osservazioni. Di conseguenza, tali tecniche appaiono in prima battuta in grado di minare la libertà cognitiva e morale dei testimoni, così come il loro privilegio contro l’autoincriminazione (come previsto, ad esempio, dal Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, o dall’art. 198, comma 2, del codice di procedura penale italiano che afferma che “Il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale”).

Da ultimo, occorre anche sottolineare come l’evidenza prodotta dalle tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna può essere, a volte, fallace. Diversi studi hanno infatti notato una tendenza dei giudici e delle giurie a sopravvalutare l’accuratezza dei dati che emergono dalle prove neuroscientifiche, e quindi è probabile che li credano molto più precisi e affidabili di quello che in realtà sono.

Questo è anche il motivo per cui è necessario fornire un potenziale quadro normativo in grado di regolare la raccolta e l’uso di tali tecniche in contesti forensi, nel pieno rispetto delle norme procedurali, sostanziali e dei diritti costituzionali.

Nel mondo legale ideale, un testimone è considerato come una macchina razionale che espone fatti veritieri. Considerando la presunzione (quasi assoluta) di veridicità che caratterizza il testimone ideale, la testimonianza viene vista come la forma più affidabile tra i mezzi di prova, a cui i giurati e i giudici si richiamano ampiamente nella formulazione delle loro decisioni, anche quando non vengono prodotte ulteriori prove esterne di riscontro.

Il notevole divario tra ciò che la legge impone di valutare, da un lato, e il reale significato da attribuire al contenuto di una testimonianza, dall’altro, sottolineano l’urgente necessità di sviluppare e adottare strumenti più scientifici, obiettivi e affidabili per assistere i giudici e i giurati nella valutazione delle testimonianze all’interno dei procedimenti penali.

 

Le tecniche di rilevamento della menzogna

Il termine lie-detection si riferisce tradizionalmente a un insieme di tecniche e procedure, il cui scopo è identificare l’inganno, vale a dire accertare l’attitudine di un soggetto a mentire tramite la rilevazione di quei segnali esteriori (percettivi) ingannevoli mediante rilevazioni fisiologiche degli stati mentali del soggetto dichiarante. Il rilevamento della menzogna può essere così definito come una forma di lettura della mente.

Le tecniche di rilevamento della menzogna non sono nuove per il diritto processuale penale. Fin dalla sua invenzione nel 1920, e ancora oggi in alcune giurisdizioni, la tecnica principale che veniva adottata per il rilevamento di inganni in contesti forensi è stato il poligrafo. In generale, il poligrafo misura delle risposte fisiologiche, indotte dal sistema nervoso simpatico, che si pensa siano associate alla menzogna, come la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca, la frequenza respiratoria, l’attività elettrodermica e così via. I test poligrafici più comunemente usati sono la tecnica di domande di controllo (CQT) e il Guilty Knowledge Test (GKT). Il presupposto comune che sta alla base di entrambi i test – che si basano su diverse metodologie – è che le persone mostrano reazioni fisiologiche distintive quando forniscono risposte veritiere o ingannevoli a specifiche domande a loro rivolte. Anche se si ritiene che l’eccitazione fisiologica periferica sia correlata con l’inganno, l’affidabilità del test del poligrafo – specialmente per gli scopi forensi – è stata grandemente messa in discussione. Come sottolineano alcuni neuroscienziati, le persone possono avere reazioni fisiologiche per ragioni che hanno poco a che fare con l’inganno, e non tutti gli individui reagiscono allo stesso modo quando danno risposte ingannevoli. Inoltre, gli individui possono adottare contromisure sia mentali che fisiche quando sono sottoposte al test del poligrafo, e tali contromisure si pensa che riducano significativamente l’accuratezza dei risultati.

Dall’inizio degli anni ’80, la ricerca neuroscientifica ha fatto scoperte significative sull’identificazione dell’inganno nell’attività cerebrale. Per molto tempo, la ricerca sulla menzogna basata sull’osservazione del funzionamento del cervello è stata condotta prevalentemente usando l’elettroencefalogramma (EEG) per cercare la cosiddetta onda P300 nell’attività elettrica del cervello. Questa tecnica tenta di identificare memorie autobiografiche in risposta a stimoli specifici e quindi a rilevare implicitamente l’inganno, ed è stata promossa sotto l’etichetta brain fingerprinting (impronta digitale del cervello). Attraverso elettrodi posti in corrispondenza del cranio della persona da analizzare, a fronte di determinati stimoli forniti al soggetto, l’elettroencefalogramma misura e analizza al millesimo di secondo i picchi dell’attività elettrica nel cervello quando questo reagisce a qualcosa che riconosce. La tecnica non è invasiva e, attraverso i test effettuati dal Dott. Lawrence Farwell, presidente del Brain Fingerprinting Laboratoires, è emersa una percentuale prossima al 100% nell’esattezza e verificabilità del risultato conseguito, tanto che si ritiene ora che il Brain Fingerprinting possa essere importante nella lotta al terrorismo e nell’individuazione di eventuali colpevoli di reato.

Più recentemente, i neuroscienziati hanno iniziato a indagare sull’inganno utilizzando la risonanza magnetica funzionale (fMRI), nel tentativo di determinare più direttamente i correlati neurali della menzogna. L’assunto di base è quello che specifiche regioni del cervello si attivano particolarmente quando un soggetto mente (sapendo di mentire), in opposizione a quando dice la verità. Sebbene i risultati di studi neuroscientifici in quest’area siano ancora preliminari ed eterogenei, alcune prove empiriche indicano che certe aree del cervello sono effettivamente coinvolte, in maniera consistente, nell’azione del mentire.

Un altro metodo, potenzialmente promettente, che è stato sperimentato per rilevare l’inganno è l’Autobiographic Implicit Association Test (aIAT). L’aIAT è una nuova applicazione del test di associazione implicita (IAT) e consiste in un compito di categorizzazione informatizzato che ha lo scopo di valutare quale dei due eventi autobiografici contrastanti sia vero per un individuo. L’aIAT misura i tempi di reazione delle risposte a possibili eventi autobiografici – cioè eventi che un individuo ha sperimentato direttamente. L’assunto alla base di questo metodo è che il vero evento autobiografico produce tempi di reazione più veloci quando condivide la stessa risposta motoria con frasi vere, mentre i tempi di reazione si allungano se l’individuo dichiara falsamente di trovarsi davanti a situazioni (eventi autobiografici) che dice che gli sono capitate. Si ritiene che il test mostri più del 90% di accuratezza diagnostica nella rilevazione di memorie vere, ed è pensato per formare uno strumento affidabile per rilevare bugie, anche in contesti forensi.

 

Il loro utilizzo nelle aule di giustizia

L’uso forense della rilevazione della menzogna basata sulle neuroscienze risale all’inizio degli anni 2000. Negli Stati Uniti, nella causa Harrington v. Iowa (2003), la Corte Suprema dell’Iowa ha annullato la condanna per omicidio di Mark Harrintgton pronunciata del 1978 e ha autorizzato un nuovo processo sulla base delle prove prodotte con il fingerprinting test, effettuato dal Dott. Lawrence Farwell. L’approccio Brain Fingerprint è un sistema basato su EEG che cattura e registra tracce di memoria delle esperienze di una persona, e quindi determina se uno o più elementi di informazione sono memorizzati nel cervello di una persona. Tecnicamente parlando, il test misura la risposta dell’onda cerebrale di un individuo (la c.d. onda MERMER, Memory and Encoding Related Multifaceted Electroencefalographic Response) alle immagini rilevanti presentate da un computer. Nella causa in oggetto, il test ha dimostrato che il record memorizzato nel cervello di Harrington non era abbinato alla scena del crimine, quindi ha fatto corrispondere il suo alibi. Inoltre, l’unico presunto testimone del crimine – sulla cui testimonianza si basava la precedente condanna di Harrington – aveva ritrattato le sue dichiarazioni quando messo a confronto con i risultati del Brain Fingerprinting.

In un altro caso giudiziario statunitense, Grinder v. State, nel 1999, nel corso del processo a carico di James B. Grinder, fu eseguito un test di brain fingerprinting sull’imputato, dimostrando che le informazioni contenute nella sua memoria cerebrale coincidevano con quelle riguardanti l’omicidio di Julie Helton. Posto di fronte a una realtà ormai accertata (e a una sicura condanna a morte), Grinder confessò lo stupro e l’omicidio della ragazza, nonché l’omicidio di altre tre donne, in cambio di una condanna all’ergastolo.

Spostandoci in India, vale la pena menzionare l’Aditi Sharmacase, che ha avuto luogo a Pune nel 2008. Durante un interrogatorio di polizia pre-processuale, l’imputata (che era sospettata di aver avvelenato il suo ex fidanzato, Udit Bharati) ha subito il Brain Electrical Oscillations test del dott. Champadi Raman Mukundan (BEOS, una variante del Brain Fingerprinting del Dr. Farwell), mentre gli ufficiali di polizia le leggevano ad alta voce la loro versione dell’omicidio. Nonostante il fatto che l’imputata non avesse fornito risposte verbali durante il test, i risultati del test indicarono che gli angoli rilevanti del cervello in cui si pensa che i ricordi possano essere memorizzati si attivarono quando il crimine veniva raccontato. Alla luce dei risultati del test BEOS, il giudice del processo ha concluso che era stato dimostrato che la signora Sharma aveva una “conoscenza esperienziale” del crimine, e quindi aveva commesso l’omicidio. Di conseguenza, Sharma venne condannata all’ergastolo. Questo caso, tuttavia, è stato pesantemente criticato per aver utilizzato una tecnologia che, in pratica, aveva gravemente violato il diritto dell’imputato al silenzio, e perché la decisione del giudice era stata presa senza riferimento a nessuna prova specifica della validità scientifica del test.

A differenza delle applicazioni basate su EEG, il rilevamento della bugia basato sulla fMRI (Functional Magnetic Resonance Imaging) deve ancora essere utilizzato nei tribunali penali. La tecnica della fMRI consente di individuare nei soggetti le aree cerebrali attivate durante compiti cognitivi, come il riconoscimento di volti e la rievocazione di immagini, con un alto grado di affidabilità. Nondimeno, ci sono stati casi in cui i tribunali statunitensi hanno discusso circa il suo uso per valutare la testimonianza sia di parti processuali che di altri soggetti. Nel 2010, per esempio, è stata richiesta l’introduzione di prove fMRI per dimostrare la veridicità di una testimonianza di un testimone estraneo ai fatti processuali (Wilson v. Corestaff Services, LP). Il caso riguardava la violazione delle leggi statali che vietavano le ritorsioni da parte di un datore di lavoro contro un impiegato. L’attrice, la signora Wilson, ha cercato di produrre i risultati del test fMRI condotti sul suo testimone centrale, Ronald Armstrong, per dimostrare la veridicità della sua testimonianza. Tuttavia, la corte di New York ha escluso questo tipo di prova, perché aveva fallito la c.d. Frye Rule (dal caso Frye v United States, 293, F. 1013, D.C. Circuit, 1923. Secondo tale regola, è necessario che, ai fini dell’ammissibilità, la tecnica scientifica di raccolta dei dati o il metodo utilizzato, siano “generalmente accettati e riconosciuti” dalla più rilevante comunità scientifica del settore interessato. La “generale accettazione” del metodo scientifico è solitamente provata da ulteriori testimoni chiamati a rendere la propria deposizione sul tema, citando il materiale di riferimento nella disciplina oggetto di prova).

Per quanto riguarda la casistica giurisprudenziale italiana, nel 2009, A. Bayout, un cittadino algerino residente a Trieste, fu accusato e processato per l’omicidio di un cittadino sud americano, W.F. Novoa-Perez, commesso a seguito di un banale litigio tra Bayout e un gruppo di cittadini sud americani, durante il quale taluno dei partecipanti avrebbe insultato Bayout a causa del suo volto truccato per motivi religiosi. L’omicidio non venne commesso nell’immediatezza dell’insulto, ma solo dopo che Bayout – allontanatosi dal luogo della rissa – fece ritorno nel quartiere armato di un coltello per vendicarsi. Ivi incontrava Novoa-Perez e, scambiandolo per colui che lo aveva offeso, lo accoltellò più volte fino a ucciderlo. Condannato a nove anni di carcere in primo grado, poiché affetto da comprovata schizofrenia, in sede di appello l’uomo beneficiava di una riduzione di pena di dieci mesi. Il giudice accordava infatti, il massimo delle attenuanti facendo diretto riferimento alle conclusioni della nuova perizia di ufficio, affidata a un esperto di neuropsicologia clinica, il prof. Giuseppe Sartori dell’Università di Padova, e a un esperto di genetica, il prof. Pietro Petrini dell’Università di Pisa. Oltre ad avvalersi dei tradizionali metodi della perizia psichiatrica (colloqui clinici), i due esperti facevano ricorso ai moderni strumenti e test diagnostici propri delle neuroscienze cognitiva (VBM – Voxel Based Morphometry) e, in particolare, della genetica comportamentale. Nonostante le imaging cerebrali non avessero evidenziato alcuna rilevante anomalia strutturale o funzionale, i test genetici mostrarono che l’imputato fosse portatore dell’allele genetico MAOA a bassa efficienza (MAOA-Low) che avrebbe ridotto la sua capacità di controllare i propri impulsi aggressivi, e quindi incline ad assumere comportamenti violenti in situazioni di stress. Questa situazione di “vulnerabilità genetica”, congiuntamene a un acclarato disturbo psichiatrico, ha condotto i giudici della Corte di Appello di Trieste a valorizzare i risultati offerti dalle neuroscienze, nel confermare il vizio parziale di mente per ridotta capacità volitiva, ad applicare una riduzione della pena comminata in primo grado da 9 anni a 8 anni e 2 mesi di reclusione.

Sempre nel 2009, a Como, S. Albertani, una donna italiana di 28 anni, già sottoposta a intercettazioni, ambientali in quanto sospettata di aver ucciso e occultato il cadavere di sua sorella scomparsa mesi prima, fu colta nella flagranza di un tentativo di omicidio ai danni di sua madre. Le indagini preliminari confermarono che Albertani fosse effettivamente responsabile dell’omicidio di sua sorella, commesso attraverso la previa somministrazione di benzodiazepine, e dei reati di occultamento e distruzione di cadavere, furto e utilizzo indebito delle carte di credito appartenenti a sua sorella. Emerse altresì che Albertani aveva in precedenza tentato l’omicidio di entrambi i genitori, provando a far esplodere l’autovettura su cui viaggiavano, e tentato di strangolare la madre in una successiva occasione. Il Giudice per le Indagini Preliminari aveva ammesso un’indagine psichiatrica sull’imputata, che facesse ricorso a tecniche neuroscientifiche e test genetici. All’esito degli esami neuropsicologici condotti con imaging cerebrali, gli esperti evidenziarono anomalie nella morfologia e nel volume di determinate strutture cerebrali preposte al controllo degli impulsi e dell’aggressività. Inoltre, le indagini genetiche dimostrarono la presenza di tre alleli sfavorevole tra cui il MAOA-Low, ossia alleli che aumentano significativamente il rischio di sviluppare comportamenti aggressivi e impulsivi. Il quadro psichiatrico, cerebrale e genetico, di S.Albertani indusse il GIP a riconoscere la sussistenza di un vizio parziale di mente e a ridurre la condanna a 20 anni in luogo di 30 di reclusione, di cui 3 da trascorrere presso una struttura psichiatrica.

 

I limiti all’utilizzo delle tecniche di rilevamento della menzogna nelle aule dei tribunali

L’ingresso di un’indagine sulle bugie basata sulle neuroscienze in tribunale porrà serie sfide alle procedure criminali e alla dottrina giuridica. A parte le questioni probatorie, trattate brevemente sopra, le preoccupazioni legali circa l’uso di neurotechniques di rilevamento della bugia vanno dalla potenziale violazione dei diritti dei testimoni – sia procedurali, sia sostanziali che costituzionali – al fatto che sono suscettibili di sbagliare e fuorviare giurie e giudici mentre valutano la credibilità dei testimoni. In base all’opinione prevalente tra gli studiosi di giurisprudenza, tali questioni saranno difficili da superare, indipendentemente dalla potenziale validità scientifica di queste tecniche.

Per quanto riguarda i diritti dei testimoni, il codice di procedura penale italiano, per esempio, pone limiti rigorosi, a vari livelli, all’uso di applicazioni scientifiche e tecnologiche potenzialmente invasive per evitare eccessiva invadenza nella “mente” del testimone. Seguendo questa logica, il codice proibisce fortemente l’utilizzo di qualsiasi tipo di dispositivo in grado di influenzare la capacità del singolo di auto-determinazione, così come quella di ricordare, valutare, ed esprimere i propri ricordi. In particolare, il sistema italiano rifiuta l’uso di tecniche di rilevamento della menzogna come l’ipnosi, la narcoanalisi e il test del poligrafo. Questo divieto verosimilmente si applicherebbe anche alle tecniche basate sulle neuroscienze, data la loro violazione dei diritti protetti da norme procedurali. Pertanto, secondo la maggior parte degli studiosi, le tecniche di rilevamento della menzogna, incluse quelle basate sulle neuroscienze, non potrebbero mai essere usati nelle aule di tribunale, nemmeno quando avranno raggiunto un sufficiente grado di affidabilità.

La forte opposizione dei giuristi italiani è ancora fondata su una comprensione sbagliata su come le tecniche neuroscientifiche effettivamente funzionano e su ciò che devono mostrare. In effetti, mentre i rivelatori di menzogne come il poligrafo o l’ipnosi pongono effettivamente il rischio concreto di alterare la capacità di richiamare, valutare e segnalare fatti, le scansioni EEG o fMRI semplicemente si limitano alla registrazione oggettiva del substrato neurale che accompagna le dichiarazioni dei testimoni. Inoltre, a differenza delle tecniche neuroscientifiche, durante l’ipnosi o la narcoanalisi, o anche durante il test del poligrafo, il soggetto non ha una piena padronanza delle proprie dichiarazioni. Nel caso dell’ipnosi, il soggetto non è cosciente mentre si sottopone al test. Nel caso del poligrafo, egli si trova in una situazione molto stressante che lo induce a sperimentare automaticamente le reazioni del corpo (sudore, aumento delle palpitazioni del cuore, ecc.), e quindi è molto probabile che alteri la sua capacità di ricordare e valutare i ricordi. Considerando la mancanza di controllo di una persona sulla propria memoria, così come sulla propria reazione fisica agli stimoli, è quindi ragionevole sostenere che una persona è effettivamente “bypassata” dal rivelatore di bugie, e quindi si verifica un’effettiva violazione delle libertà morali e cognitive tutelate dalle norme legali.

Si pensa anche che l’uso di tecniche neuroscientifiche sui testimoni ponga serie sfide al privilegio contro l’autoincriminazione, codificato nella grande maggioranza dei sistemi legali. In generale, il privilegio contro l’auto-incriminazione impedisce a un testimone di essere costretto a testimoniare su fatti che possono rivelare la propria responsabilità penale. Negli Stati Uniti, ad esempio, il privilegio contro l’autoincriminazione costituisce un diritto costituzionalmente tutelato dal 5° Emendamento.

A tale riguardo, la questione se le prove neuroscientifiche debbano essere considerate come prova testimoniale o non testimoniale ha cominciato a essere discusso da studiosi di giurisprudenza. Secondo l’opinione di minoranza, le tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna appartengono per natura alla categoria delle prove non testimoniali, e quindi non rientrano nell’ambito del privilegio previsto dal 5° Emendamento. Approssimativamente, per i sostenitori di questa opinione una scansione fMRI non è altro che una registrazione computerizzata di onde radio emesse da molecole nel cervello, e non può assumere la veste di testimonianza. Un altro punto di vista, è invece quello che considera i dati prodotti dalle prove neuroscientifiche come testimoniali, o prove comunicative. In base a questo assunto, il rilevamento della menzogna in base a tecniche neuroscientifiche consiste nel porre domande a soggetti a cui si dà delle risposte, orali o premendo i pulsanti, e ciò fa si che si rimane ancora nell’ambito della comunicazione, e come tale deve essere considerata una testimonianza.

Il fatto che le tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna possano essere considerate come prova testimoniale non significa ancora che i limiti posto dal 5° Emendamento, o da qualsiasi altra disposizione analoga che regoli il privilegio contro l’autoincriminazione, siano assoluti e insormontabili. Come già sottolineato, il privilegio contro l’autoincriminazione è semplicemente mirato a impedire a un testimone di essere costretto a fornire informazioni che potrebbero rivelare il suo coinvolgimento in un’attività criminale. A parte quello, un testimone è di regola richiesto di testimoniare su circostanze oggettive e rilevanti del fatto-reato, nonché sulla potenziale responsabilità di terzi. Nessuno di questi argomenti rientra nell’ambito del privilegio contro l’auto-incriminazione. Di conseguenza, non ci sono ragioni legali plausibili per escludere la possibilità che la testimonianza possa essere utilizzata. Inoltre, un testimone è obbligato a dire la verità sotto giuramento, altrimenti è soggetto a sanzioni (in caso di spergiuro, per esempio). Tuttavia, come dimostra la realtà, questi deterrenti sono spesso insufficienti per assicurare che i testimoni rispettino il loro dovere di rispondere in modo veritiero: come già sottolineato, i giudici e le giurie non sono in grado di riconoscere quando le affermazioni fatte sono vere o false.

 

Ipotetiche linee guida per il loro utilizzo

Supponendo un futuro in cui le questioni probatorie sull’ammissibilità di tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna siano risolte, e venga sviluppato un appropriato processo di individuazione della menzogna, devono essere stabilite linee guida e criteri per regolare la raccolta di questo tipo di prove in conformità con i diritti delle persone nei procedimenti penali. Un potenziale quadro normativo che regoli l’uso di tali tecniche neuroscientifiche – senza alterare il nucleo essenziale delle testimonianze – potrebbe essere formulato come segue: su richiesta di una o di entrambe le parti, il rilevamento della menzogna basato sulla neuroscienza dovrebbe poter assistere la testimonianza solo in presenza del consenso informato, espresso e chiaro del testimone. Il requisito del consenso è obbligatorio. L’utilizzo di tecniche neuroscientifiche di rilevazione della menzogna può essere utilizzato, a discrezione del tribunale, solo (i) quando non ci sono altre prove disponibili; (ii) quando due o più testimoni si contraddicono a vicenda e i fatti rimangono poco chiari; (iii) quando il contenuto della testimonianza è fondamentale per il tribunale per arrivare a una decisione. L’utilizzo delle tecniche neuroscientifiche può aiutare a stabilire la verità di una testimonianza solo in relazione alle circostanze oggettive dell’atto o alle informazioni su terze persone. In nessuna circostanza è possibile utilizzare tali tecniche con riguardo alle informazioni che il testimone ritiene ragionevolmente possano essere utilizzate in un procedimento penale, o che potrebbero condurre alla scoperta di altre prove che potrebbero essere utilizzate in un procedimento giudiziario. Un perito esperto dovrà essere necessariamente nominato dal tribunale per amministrare e assistere alla raccolta e alla valutazione dei dati raccolti utilizzando le tecniche neuroscientifiche. il Perito scriverà un rapporto sulle risposte fornite dal testimone sottoposto al test neuroscientifico. La corte valuterà in ultima istanza la credibilità del testimone, confrontando i risultati del test di rilevamento della menzogna con altre prove prodotte.

Per essere valido, quindi, il consenso del testimone dovrà anzitutto essere informato (cioè, il testimone deve essere informato sulla procedura di test, in cosa consiste esattamente il rilevamento della menzogna, come i dati che emergono dal test potrebbero essere utilizzati dalla Corte, e così via), espresso (ad esempio, il consenso deve essere espresso per iscritto) e intelligibile. Inoltre, come discusso in precedenza, i testimoni non potrebbero essere obbligati a rispondere alle domande mostrando il loro possibile coinvolgimento in attività criminali. Di conseguenza, il principale ostacolo all’uso dei test neuroscientifici di rilevamento della menzogna rimane il rischio di violazione del privilegio contro l’autoincriminazione. Per impedire questo rischio, è quindi necessario porre rigorose limitazioni al tipo di domande che potrebbero essere chieste a un testimone sottoposto al test. Pertanto, le tecniche neuroscientifiche di rilevamento della menzogna potranno aiutare la testimonianza solo rispetto a quel tipo di domande relative a circostanze oggettive del crimine (ad esempio, sul tempus commissi delicti, o su ciò che il testimone ha visto o sentito, o su chi fosse presente sulla scena del crimine, ecc.). Al contrario, domande relative a qualsiasi tipo di potenziale implicazione di un testimone in un’attività criminale dovrebbero essere escluse a priori.

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