Modello 231 e responsabilità degli enti
La Cassazione è tornata recentemente ad occuparsi della necessità di valutare l’idoneità del modello organizzativo adottato dall’ente. Con la sentenza n. 43656/2019 infatti, la Suprema Corte ha affermato, coerentemente con lo spirito di fondo e il target del D.Lgs 231/2001, che il giudizio sulla colpevolezza dell’ente deve necessariamente passare per il vaglio di idoneità del modello adottato.
Il D.lgs 231/2001 infatti ha creato un tipo di responsabilità fino ad allora ritenuta inammissibile (societas delinquere et puniri non potest), tipica della persona giuridica, consistente nella cd “colpa in organizzazione”: la responsabilità dell’ente, in caso di commissione di un reato, consiste nel non aver adeguatamente provveduto ad evitare tale evento attraverso la propria organizzazione e struttura. Una responsabilità ibrida, tra il penale e l’amministrativo, che si può configurare in vero e proprio tertium genus, che attinge elementi da entrambe le materie.
Lo strumento attraverso il quale le società può provvedere ad eliminare tali carenze è il Modello Organizzativo, consistente in una serie di protocolli, procedure, provvedimenti e principi da adottare nell’esercizio dell’attività. L’art. 6 del decreto stabilisce che se tale modello si verifica idoneo a prevenire reati, nessun rimprovero potrà essere mosso all’ente. Tale meccanismo di esclusione della responsabilità va tuttavia in cortocircuito nel momento in cui si deve provare l’idoneità del modello adottato quando un reato si è verificato ed evidentemente il modello non è stato in grado di prevenirlo; non a caso si parla spesso di probatio diabolica al riguardo, ossia di prova impossibile. Nel corso del tempo tuttavia sono stati aggiunti diversi correttivi alla materia, che hanno consentito di agevolare la prova per gli enti: ad esempio le Linee Guida di Confindustria, o le norme UNI ISO, per esempio in ambito anticorruzione, o ancora le linee guida del D.Lgs 81/2008 in tema di prevenzione di reati colposi correlati agli infortuni sul lavoro; queste norme e linee guida possono essere seguite nella redazione del modello, e sebbene non ne certifichino automaticamente l’idoneità, sono certamente indice dell’adeguamento alle cd best practice, cui la giurisprudenza chiede di conformarsi in sede di redazione del modello. La redazione del modello è chiaramente un’opera complessa, per cui l’ente deve avvalersi di uno specialista esperto in tutte le materie coperte dalla lista dei cd reati – presupposto del decreto, vale a dire i reati la cui commissione da parte della persona fisica fa sorgere la responsabilità in capo all’ente di cui tali persone fanno parte.
Nella sentenza in esame la Suprema Corte era stata chiamata ad esprimersi sulla base del ricorso presentato dall’ente che, condannato in appello in seguito al decesso di un proprio dipendente (omicidio colposo, art. 25 septies D.Lgs 231/2001), lamentava in primis l’inconciliabilità dei criteri dell’interesse del vantaggio con i reati colposi, e in secundis, la mancata verifica di idoneità del modello organizzativo di cui l’ente si era dotato.
Quanto al primo motivo, la Corte, ritenendolo privo di fondamento, ribadisce quanto già affermato più e più volte: i criteri dell’interesse e del vantaggio, che consistono nel fine perseguito dalla persona fisica che commette il reato a favore dell’ente, non si riferiscono all’esito antigiuridico (la morte o le lesioni), bensì alla condotta: l’ente può essere giustamente incolpato delle lesioni subite dal dipendente o della sua morte, se queste sono state causate ad esempio dal mancato rispetto delle norme di prevenzione infortuni, dovute ad una scelta dell’ente di non investirvi risorse; il risparmio generato da questa scelta consiste nel vantaggio conseguito dall’ente, che pertanto dovrà essere ritenuto responsabile del reato verificatosi.
Quanto alla seconda doglianza invece, la Corte accoglie il ricorso dell’ente: la sentenza impugnata aveva ingiustamente omesso di valutare il contenuto e l’idoneità del modello adottato dall’ente, limitandosi ad accertare l’inidoneità del P.O.S. (piano operativo della sicurezza), facendo quindi desumere la colpevolezza dell’ente dall’accertamento della responsabilità penale della persona fisica. Questa operazione è chiaramente in netto contrasto con il decreto 231, per quanto già spiegato sopra: la colpevolezza dell’ente non risiede nella semplice commissione di un reato da parte delle persone che lo compongono, ma nel deficit organizzativo che ha reso possibile tale avvenimento.
La Corte ha quindi annullato la sentenza, rinviandola in Corte D’Appello per un nuovo giudizio che si concentri in modo specifico sulla valutazione del modello, affermando il seguente principio di diritto: “in tema di responsabilità degli enti derivante da reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica compete al giudice di merito, investito da specifica deduzione, accertare preliminarmente l’esistenza di un modello organizzativo e di gestione ex art. 6 del d. lgs. n. 231 del 2001; poi, nell’evenienza che il modello esista, che lo stesso sia conforme alle norme; infine, che esso sia stato efficacemente attuato o meno nell’ottica prevenzionale, prima della commissione del fatto”.
Come detto, la valutazione del modello è un’operazione in ogni caso delicata e la prova della sua idoneità è particolarmente complessa per l’ente. Questo rinvio può essere una buona occasione per la giurisprudenza di fare chiarezza su quali siano gli elementi decisivi per poter costruire un modello “a prova di reato”. Sebbene tale operazione non dovrebbe spettare alle corti, bensì al legislatore, il quale dovrebbe intervenire sul decreto 231 a limare questi punti critici evidenti ormai da tempo, è pur vero che sono sempre i giudici a decidere sull’idoneità dei modelli, pertanto la giurisprudenza può fornire indicazioni utili in sede di redazione dei modelli.
Il modello perfetto non esiste, ovviamente: troppe sono le variabili all’interno di un contesto aziendale, la cui grandezza può ampliare le aree a rischio e le opportunità di reato. Ciò che può fare l’ente è aggiornarsi il più possibile alle best practice, perseguire l’obiettivo sociale incentivando i propri dipendenti al rispetto dei principi etici e della legalità e soprattutto controllare il più possibile l’intera attività: uno degli elementi fondamentali del modello è infatti la previsione di un controllo efficace, eseguito da un organismo apposito (l’Organismo di Vigilanza).
Questa sentenza insegna quindi che quale che sia il campo d’azione dell’ente, è comunque consigliabile dotarsi di un modello organizzativo. Ad oggi, il catalogo dei reati–presupposto annovera molte figure di reato diverse tra loro, che coprono i reati corruttivi, i reati societari, i reati in materia ambientale, reati connessi al rispetto della sicurezza sul lavoro, reati informatici, e da ultimo, i reati tributari, introdotti nel 2019: impossibile per il singolo ente saper prevedere ogni lacuna organizzativa ed evitare la commissione di reati in un contesto così ampio e articolato, senza affidarsi a degli esperti per la redazione del modello 231 e per il controllo sul suo funzionamento.