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Modelli 231 e messa alla prova

D.Lgs. 231/2001 e Compliance: Responsabilità delle Aziende

ComplianceFebbraio 1, 2025

Per decenni, il carattere prettamente personalistico del sistema penale ha reso oltremodo arduo il relativo assoggettamento delle persone giuridiche, per loro natura aliene da ogni tentativo di antropomorfizzazione.

Com’è noto il d.lgs. 321/2001, sovvertendo il tradizionale principio “societas delinquere non potest”, sulla scia di regolamentazioni straniere, in particolare dei Compiance Programs statunitensi, secondo cui ogni ente deve dotarsi al suo interno di un’organizzazione adeguata funzionale alla prevenzione del rischio di reato, ha introdotto una grande novità per il diritto d’impresa, ponendo a carico delle società (di ogni tipo, dimensione ed attività), una responsabilità amministrativa/penale per una serie di reati commessi da propri amministratori, dirigenti, dipendenti o terzi mandatari, qualora siano stati realizzati nell’interesse od a vantaggio dell’impresa e siano stati resi possibili da carenze della struttura organizzativa dell’impresa stessa. L’obiettivo principale della disciplina introdotta dal cit. d. lgs. 231 è pertanto quello di rendere responsabili gli enti degli illeciti che vengono commessi nel loro interesse od a loro vantaggio e che sono resi possibili dalle carenze della struttura organizzativa degli stessi (colpa da organizzazione).

In conformità al principio costituzionale della responsabilità della pena, l’ente risponde non per il reato commesso dalla persona fisica, bensì per non aver fatto quanto era possibile per evitare il reato stesso e cioè per averlo agevolato con il proprio deficit organizzativo.

Sennonché, uno dei profili più controversi riguarda l’applicazione e/o la relativa estensione degli istituti latu sensu premiali; si tratta, infatti, di un tema oltremodo delicato ed il cui coinvolgimento avendo lambito profili concernenti l’ontologia della soggettività, ha finito con il recare con sé numerosi dubbi e perplessità.

Eppure l’archetipo del cit. d.lgs. 321 non è risultato per nulla refrattario a questo tipo di estensione, avendo sin dall’origine preveduto la possibilità per l’ente di sottrarsi alla responsabilità amministrativa/penale, qualora, nonostante l’avvenuta commissione di un reato nell’interesse o vantaggio dell’ente, quest’ultimo abbia adottato, prima della commissione del fatto, un modello organizzativo e di gestione (MOG) idoneo a prevenire i reati, dotato delle caratteristiche previste nel Decreto stesso. Si tratta pertanto di una notazione di favore per quanto riguarda l’attitudine del d.lgs. riguardo alle esimenti nella responsabilità penale/amministrativa dell’ente, benché l’adozione di un MOG costituisca tecnicamente più che altro non un obbligo, bensì un onere a carico di tutti gli enti rientranti nell’ambito applicativo del Decreto.

La messa alla prova: caratteristiche dell’istituto ed iniziale incertezza del suo favor giurisprudenziale

Un fenomeno di indubbio interesse e su cui l’originario impianto del cit. d.lgs. 231 ha mantenuto un (colpevole) silenzio, è stato l’applicabilità dell’istituto della messa alla prova dell’ente collettivo e che un consolidato trend giurisprudenziale (culminato con l’importante pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 148/2023) ha continuato a considerare inapplicabile agli enti incolpati ai sensi del d.lgs. 231/2001 (ma si vedano in contrario l’indirizzo interpretativo espresso dalle Corti territoriali di Modena e Bari, rispettivamente G.I.P. Trib. Modena, ord. 19 ottobre 2020 e Trib. Bari ord. 22 giugno 2022, nonché da ultimo altresì la recentissima ordinanza del Tribunale di Perugia del 7 febbraio 2024), che ha sostenuto e ribadito il richiamo operato dagli artt. 34 e 35 cit. d.lgs. 231 alle norme del codice penale e di quello di procedura penale in quanto compatibili, un “espresso rinvio analogico operato dallo stesso legislatore”, con il limite della compatibilità.

La difficoltà di inquadramento e correlativa applicazione dell’istituto derivano in particolare dalla difficoltà di collegarlo ad un trattamento sanzionatorio e ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, che non contempla alcun coinvolgimento dell’imputato nel processo decisionale ed applicativo della pena, la sospensione del procedimento con messa alla prova presuppone inderogabilmente la volontà dell’imputato che, non contestando l’accusa, si sottopone al trattamento.

Nella sua dimensione sostanziale, infatti, la messa alla prova costituisce una forma di probation giudiziale innovativa nel settore degli adulti e che si identifica, su richiesta dell’imputato e dell’indagato, nella sospensione del procedimento penale per reati di minore allarme sociale.

La fattispecie premiale, imposta anche dalla Corte EDU con la condanna inflitta all’Italia l’8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani contro Italia, riflesso ulteriormente applicativo della deflazione processuale e di alleggerimento della gravosa situazione carcercaria, è stata introdotta con la l. 67/2014 che, traendo ispirazione da istituti di matrice anglosassone ha, modificato sia il Codice penale (introducendo il nuovo istituto agli art. 168 bis, 168 ter e 168 quater), sia il Codice di procedura penale (comprensive delle norme di attuazione, coordinamento e transitorie) con l’introduzione degli art. 464 bis e seguenti che regolano le attività di istruzione del procedimento e del processo, nonché l’art. 657 bis che indica le modalità di valutazione del periodo di prova.

Orbene per ovviare a quest’assenza, una recente iniziativa della commissione ministeriale di riforma del d.lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa dell’ente istituita dal Guardasigilli Nordio, ha dato corso ad un disegno di legge ricettivo di un’ipotesi speculare di “messa alla prova” per le aziende, ma che nella sua ontologia differisce notevolmente dall’istituto previsto per la persona fisica.

Più esattamente, l’ipotesi di lavoro introdotta dal cit. d.lgs. 231 rappresenta una valorizzazione del modello post factum, e cioè un modello organizzativo aggiornato orientato su una prospettiva premiale e riparativa per le imprese impegnate nella prevenzione degli illeciti; diversamente dalla correlativa ipotesi prevista per l’imputato, il cui affidamento al servizio sociale per lo svolgimento di un programma che può implicare, fra l’altro, attività di volontariato di rilievo sociale, ovvero l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali, ma assai più blandamente una prospettiva premiale e riparativa per le imprese impegnate nella prevenzione degli illeciti; in tal guisa, laddove i giudici considerano idoneo il nuovo modello presentato dall’ente e che dimostra di volersi adeguare alle prescrizioni, cadono le accuse e la società viene automaticamente estromessa dal processo.

In tal modo risulta soddisfatto il criterio di cui all’art. 464 quater co. 3 c.p.p. in quanto ed in linea di principio sussistendo le relative prescrizioni, l’essersi la società dotata di un modello organizzativo porta il giudice a ritenere che la stessa si asterrà dal commettere ulteriori illeciti.

Non resterà pertanto che attendere gli esiti di questa legislazione in itinere, con la consapevolezza che la radicale alterità dell’istituto rispetto al suo correlativo del c.p., necessiterà comunque degli opportuni adattamenti con lo spirito del cit. d.lgs. 321; questi ultimi in particolare, confluiscono nel principio in base al quale, poiché la sanzione rivolta solo alle persone fisiche autrici del reato è insufficiente sotto il profilo preventivo, afflittivo e di riparazione dei danneggiati, occorre che all’interno delle organizzazioni a struttura complessa una molteplicità di apparati ed il processo decisionale venga scandito in una pluralità di fasi governate non già da un singolo individuo, sibbene da diversi gruppi (c.d. polverizzazione di responsabilità).

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