Definizione di Know How e perimetro di tutela penale
La Corte di Cassazione, con la sentenza della Sez. V, n. 16975, depositata in data 4.06.2020, è recentemente tornata a delimitare l’ambito di applicazione dell’art. 623 c.p., rubricato “Rivelazione di segreti scientifici o commerciali”.
Come si ricorderà, tale articolo è stato novellato dall’art. 9, d.lgs. 11.05.2018, n. 63 con decorrenza dal 22.06.2018. Il nuovo testo dell’art. 623, c.p., è dunque ora il seguente:
[I]. Chiunque, venuto a cognizione per ragioni del suo stato o ufficio, o della sua professione o arte, di segreti commerciali o di notizie destinate a rimanere segrete, sopra scoperte o invenzioni scientifiche, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto, è punito con la reclusione fino a due anni.
[II]. La stessa pena si applica a chiunque, avendo acquisito in modo abusivo segreti commerciali, li rivela o li impiega a proprio o altrui profitto.
[III]. Se il fatto relativo ai segreti commerciali è commesso tramite qualsiasi strumento informatico la pena è aumentata.
[IV]. Il colpevole è punito a querela della persona offesa.
Il comma 3 dell’art. 9 citato, inoltre, specifica che, ai fini della tutela penalistica fornita dal novellato art. 623, c.p., le notizie destinate a rimanere segrete sopra applicazioni industriali, di cui alla formulazione previgente del medesimo articolo 623, costituiscono segreti commerciali.
Il caso oggetto di disamina da parte della Cassazione riguardava la messa in commercio di una chiave dinamometrica da parte di ex dipendenti della società XYZ che si occupa della progettazione, costruzione e commercializzazione di apparecchiature meccaniche, elettroniche e informatiche per il serraggio. XYZ aveva denunciato gli ex dipendenti, e nei precedenti due gradi di giudizio era stato sostenuto che la chiave, da questi ultimi commercializzata, era stata realizzata sfruttando le conoscenze acquisite in XYZ, comprese parti del software di controllo, messo a punto dalla società e sfruttando l’esperienza professionale acquisita dagli imputati negli anni presso detta società.
Gli imputati, a seguito della condanna in appello, proponevano ricorso per cassazione contestando, in particolare, la sussistenza del reato ex art. 623, c.p. sotto il profilo dell’elemento oggettivo e materiale, per mancata individuazione del know how, oggetto della tutela penale, non potendo riconoscersi un tale valore a tutti i processi produttivi o commerciali.
Essi sostenevano infatti che, come riferito dagli stessi periti durante il processo, la chiave dinamometrica che si assumeva replicata, era un prodotto semplice e in commercio da moltissimo tempo, soggetto a continue evoluzioni. Inoltre, sostenevano che la commercializzazione delle chiavi da parte di XYZ aveva reso di pubblico dominio l’asserito know how, perdendo qualsiasi pretesa di tutelabilità. In sostanza, per il genere di prodotto in discussione, sostenevano che non era prospettabile un know how una volta che un prodotto è stato posto in commercio.
Ancora, essi si lamentavano del fatto che la sentenza di condanna non aveva tenuto conto dei tre requisiti, richiesti dalla normativa sia interna che comunitaria ai fini della tutela della segretezza: la società XYZ non aveva attuato alcuna misura di tutela della asserita segretezza del proprio know how, non avendo stipulato con i ricorrenti neppure un patto di non concorrenza, né erano state adottate misure di protezione idonee a delimitare l’accessibilità alle informazioni che, per consolidata giurisprudenza, sono distinte in tecnologiche, organizzative e contrattuali.
In carenza di protezione, il preteso know how non risultava tutelabile, e, comunque, secondo quanto riferito dai periti, si trattava di informazioni generalmente note e facilmente accessibili. Come affermato dalla stessa sentenza, il prodotto commercializzato dagli imputati era diverso da quello della XYZ, sia sotto il profilo tecnico che implementativo, avendo essi posto in essere una chiave concorrenziale; se i prodotti finiti erano diversi, anche il know how doveva ritenersi differente.
La Corte di Cassazione, tuttavia, da torto agli ex dipendenti di XYZ e rigetta i ricorsi confermando la condanna per il reato di cui all’art. 623, c.p., sul quale la Corte si sofferma ampiamente per delinearne i confini di tutela e per riaffermarne le differenze rispetto all’art. 98 del Codice della Proprietà Industriale (d.lgs. 10 febbraio 2005, n. 30).
Anzitutto, gli ermellini, richiamando precedente e consolidata giurisprudenza, affermano che, ai fini della configurabilità del reato di rivelazione di segreti industriali, non costituisce condizione la sussistenza dei presupposti per la brevettabilità, ex art. 2585 c.c., della scoperta o dell’applicazione rivelata, dovendosi invece ritenere oggetto della tutela penale del reato in questione il segreto industriale inteso in senso lato, ovvero “quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione” (Sez. 5, n. 25008/2001 e n 28882 2003).
Nei precedenti gradi di giudizio, infatti, si era accertato che l patrimonio di conoscenze acquisito dalla società XYZ – con l’impiego di risorse finanziarie rilevanti, e il lavoro di equipe, con il coinvolgimento di diverse competenze tecniche, la ricerca quotidiana, i numerosi test per renderla fruibile ai clienti finali, ovvero le più importanti case automobilistiche mondiali, e adattarle alle esigenze segnalate – fu in grado di dare luogo alla combinazione del tutto originale confluita nella chiave dinamometrica realizzata dalla società.
Era stata quella combinazione a consentire agli ex dipendenti di XYZ, avendo incamerato il patrimonio conoscitivo dell’azienda, di mettere a frutto – tra l’altro, nel breve volgere di tre mesi – un prodotto tecnologicamente sofisticato e fortemente concorrenziale – che aveva richiesto alla XYZ un elevato impegno economico e di ricerca e tre anni di successiva sperimentazione – e di entrare immediatamente nel mercato in modo competitivo.
In sostanza, gli imputati, usando conoscenze software acquisite durante il rapporto di collaborazione con XYZ, e avvalendosene in modo sleale, avevano potuto comprimere al massimo i tempi di realizzazione di un prodotto fortemente concorrenziale, beneficiando del vantaggio temporale connesso ai tempi della ricerca e della sperimentazione di cui neppure avevano dovuto sopportare i costi. Vantaggio che, in un sistema capitalistico sempre più connotato dalla velocità, e dalla rapida obsolescenza dei prodotti industriali, assume decisiva rilevanza valoriale del know how, ovvero del “patrimonio di conoscenze pratiche non brevettate derivanti da esperienze e da prove” (art. 1 del regolamento CE 772/04 relativo all’applicazione dell’art. 81 par. 3 del trattato CE a categorie di accordi di trasferimento tecnologico).
La sentenza della Cassazione prosegue ricordando come, accanto alla protezione offerta al know how in ambito civilistico, l’ordinamento nazionale offre, grazie anche allo sviluppo della giurisprudenza, protezione anche in sede penale, in particolare, con l’art. 623 c.p., il cui bene giuridico oggetto di tutela è individuato nell’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il c.d. know how, vale a dire quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale (Sez. 5, n. 25008 del 18/05/2001, Rv. 219471).
Ci si riferisce, con tale espressione, a una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione, e, in via sintetica, all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni, e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico. Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all’ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti.
Esso si traduce, in ultima analisi, nella capacità dell’impresa di restare sul mercato e far fronte alla concorrenza. L’informazione tutelata dalla norma in questione è, dunque, un’informazione dotata di un valore strategico per l’impresa, dalla cui tutela può dipendere la sopravvivenza stessa dell’impresa.
Con l’esplicito riconoscimento dell’estensione della tutela prestata dall’art. 623 c.p., al know how aziendale, secondo gli ermellini quest’ultimo viene fatto rientrare nel campo di applicazione della norma in quanto riconducibile all’elastica nozione di “applicazione industriale”, assimilabile all’espressione “segreto commerciale” (secondo quanto espressamente affermato dal già richiamato art. 9, comma 3, d.lgs. 63/2018) e comprensiva di tutte le innovazioni e gli accorgimenti che “contribuiscono, comunque, al miglioramento e all’aumento della produzione”, anche se privi dei requisiti richiesti per la loro brevettazione.
Invero, ricorda la sentenza qui in oggetto, dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che la copertura offerta dall’art. 623 c.p., va oltre quella predisposta dall’ordinamento civilistico all’invenzione brevettabile, e il giudice di legittimità ha più volte affermato che, ai fini della tutela penale del segreto industriale, novità (intrinseca od estrinseca) ed originalità non sono requisiti essenziali delle applicazioni industriali, poiché non espressamente richiesti dal disposto legislativo e perché l’interesse alla tutela penale della riservatezza non deve necessariamente desumersi da questi attributi delle notizie protette.
Un altro passaggio della sentenza n. 16975/2020 merita attenzione. I giudici rilevano come già prima dell’entrata in vigore del Codice della Proprietà Industriale, era stato ritenuto fondamentale che le applicazioni industriali non siano state divulgate e che quindi non possano dirsi notorie, non siano cioè a disposizione di un numero indeterminato di persone.
Questo vuol dire che, anche se la sequenza delle informazioni che, nel loro insieme, costituiscono un tutt’uno per la concretizzazione di una fase economica specifica dell’attività dell’azienda, è costituita da singole informazioni di per sé note, ove detta sequenza sia invece non conosciuta e sia considerata segreta in modo fattivo dall’azienda, essa è di per sé degna di protezione e tutela. Non è necessario, cioè, che ogni singolo dato cognitivo che compone la sequenza sia “non conosciuto”; è necessario, invece, che il loro insieme organico sia frutto di un’elaborazione dell’azienda.
È attraverso questo processo, infatti, che l’informazione finale acquisisce un valore economico aggiuntivo rispetto ai singoli elementi che compongono la sequenza cognitiva. È ciò che accade, appunto, nel caso di una azienda che adotti una complessa strategia per lanciare un prodotto sul mercato: i suoi singoli elementi sono senz’altro noti agli operatori del settore, ma l’insieme può essere stato ideato in modo tale da rappresentare un qualcosa di nuovo e originale, costituendo, in tal modo, un vero e proprio tesoro dal punto di vista concorrenziale per l’ideatore.
Per quanto precede, non è possibile operare, come invece avrebbero voluto le difese degli imputati, una assimilazione tra il segreto industriale di cui all’art. 623 c.p. e le informazioni segrete aziendali di cui all’art. 98 C.P.I.
Infatti, ancora prima del d.lgs. n. 63 del 2018, a livello normativo, l’ordinamento italiano già declinava, nel Codice della Proprietà Industriale, agli artt. 98 e 99, una specifica tutela a quelle che venivano definite “informazioni segrete” – ora indicate, invece, come “segreti commerciali”. Dunque, secondo gli ermellini, il tema della possibilità di definire l’oggetto dell’art. 623 c.p., mutuandone la descrizione dall’art. 98 C.P.I. (il quale, si ricorda, individua l’oggetto della tutela nelle informazioni aziendali e nelle esperienze tecnico-industriali, comprese quelle commerciali, soggette al legittimo controllo del detentore, ove tali informazioni: a) siano segrete;
- b) abbiano valore economico in quanto segrete;
- c) siano sottoposte, da parte di persone al cui legittimo controllo sono soggette, a misure ragionevolmente adeguate) non possa essere affrontato attribuendo all’art. 98 C.P.I. la funzione di norma integrativa, poiché questo implicherebbe che, al concetto di segreto industriale, come definito da tale norma, possa essere attribuito valore generale.
Ma ciò contrasta con il dato che lo stesso Codice della Proprietà Industriale, all’art. 99, facendo salva la disciplina della concorrenza sleale, riconosce l’esistenza di segreti industriali che, pur non rispondendo ai criteri indicati dall’art. 98 C.P.I., sono meritevoli di tutela. Il riferimento alla disciplina della concorrenza sleale, contenuto nell’art. 99, comporta che l’art. 2598 c.c., sia applicabile, in via complementare, qualora gli atti di acquisto, utilizzazione e divulgazione – pur avendo ad oggetto informazioni non qualificabili come “informazioni segrete” per mancanza dei requisiti di cui all’art. 98 c.p.i. soddisfino i requisiti soggettivi e oggettivi prescritti per l’azione di concorrenza sleale, come ad esempio nel caso di sottrazione di dati oggettivamente riservati, per i quali non siano state adottate misure di segretezza.
A tanto si aggiunge, altresì, che il d.lgs. 63/2018, pur avendo espressamente affermato, all’art. 9, comma 3, che “le notizie destinate a rimanere segrete sopra applicazioni industriali di cui alla formulazione previgente del medesimo art. 623, costituiscono segreti commerciali”, per definire i requisiti del know how, non ha, invece, operato, nel ridefinire la norma penale a tutela del segreto, alcun richiamo all’art. 98 del C.P.I..
Pertanto, conclude la Cassazione sul punto, anche dopo l’intervento legislativo del 2018, può escludersi che il concetto penalistico di segreto soffra interferenze a opera di quello ricavabile dall’art. 98 del Codice della Proprietà Industriale (in tal senso, anche Cass. Pen., Sez. II, 11.05.2010, n. 20647; Sez. V, n. 48895 del 20.09.2018), risultando accolta, dall’art. 623 c.p., una nozione di segreto commerciale più ampia di quella descritta dall’art. 98 C.P.I..
Di conseguenza, se l’art. 98 C.P.I. non è norma idonea a definire i confini applicativi della fattispecie previsti dall’art. 623 c.p., in presenza di un know-how avente i requisiti previsti dall’art. 98 C.P.I., potrà senz’altro accordarsi la tutela prevista dall’art. 623 c.p., trattandosi di notizie segrete ed essendovi un interesse giuridicamente tutelato al mantenimento del segreto. Laddove, invece, non sussistano i requisiti previsti dall’art. 98 C.P.I., dovrà individuarsi aliunde l’esistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto.
Tale interesse, nella vicenda oggetto del giudizio della Cassazione, secondo gli ermellini è stato adeguatamente individuato dai giudici di merito, laddove hanno posto in evidenza che la società XYZ aveva speso milioni di euro per acquisire la tecnologia avanzata elaborata per la progettazione, costruzione e successiva commercializzazione di un prodotto caratterizzato da altissimi standard tecnologici, non reperibile altrimenti sul mercato industriale.
Come evidenziato dai giudici di merito, tale circostanza, e le ragioni di un siffatto agire da parte di XYZ, erano note agli imputati, che hanno potuto adeguatamente apprezzare la riservatezza delle informazioni costituenti il know-how dell’azienda, alla luce delle posizioni apicali da loro rivestite all’interno di XYZ e della condotta complessivamente da loro tenuta, per come ricostruita dalla Corte di Appello.
In conclusione, anche se nel caso di specie non erano presenti gli elementi giuridici richiamati dal Codice della Proprietà Industriale, la Corte di Cassazione ha condannato gli imputati per il reato di cui all’art. 623, c.p. per aver sottratto il know-how (i.e., segreto industriale) di una nota multinazionale operante nel settore delle chiavi dinamometriche, con la quale avevano in precedenza collaborato, utilizzandoli per realizzare prodotti concorrenziali destinati al medesimo mercato di riferimento; know-how definito come “quel patrimonio cognitivo e organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale” e, dunque, “una tecnica, o una prassi o, oggi, prevalentemente, a una informazione, e, in via sintetica, all’intero patrimonio di conoscenze di un’impresa, frutto di esperienze e ricerca accumulatesi negli anni, e capace di assicurare all’impresa un vantaggio competitivo, e quindi un’aspettativa di un maggiore profitto economico. Si tratta di un patrimonio di conoscenze il cui valore economico è parametrato all’ammontare degli investimenti (spesso cospicui) richiesti per la sua acquisizione e al vantaggio concorrenziale che da esso deriva, in termini di minori costi futuri o maggiore appetibilità dei prodotti. Esso si traduce, in ultima analisi, nella capacità dell’impresa di restare sul mercato e far fronte alla concorrenza“.